Carissimi confratelli,
viviamo in questi giorni la Programmazione INE ad Auronzo di Cadore. È una occasione bella per condividere la nostra vocazione e missione salesiana, per raccontarci il cammino fin qui fatto e per guardare insieme al prossimo anno pastorale. In questo periodo più volte mi sono soffermato sulle parole che Gesù dice a Marta: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 41-42). Mi son chiesto: qual è nella nostra pastorale quella sola cosa di cui c’è bisogno? Quale è la parte migliore che Gesù ci invita a scegliere? Penso che potremmo rispondere elencando le varie indicazioni che ci arrivano dalla Congregazione o rifacendoci agli Atti del Capitolo Ispettoriale. Troveremmo certamente molte e diversificate risposte, ma il Signore dice: di una cosa sola c’è bisogno.
Provo a rispondere con un’altra domanda: cosa ad un ragazzo, ad un giovane accende il cuore? La risposta a questo quesito ci aiuta a cogliere quale sia l’unica scelta di cui c’è bisogno nella nostra azione pastorale. Le proposte che facciamo e le strutture che abbiamo sono importanti nella misura in cui scaldano il cuore dei giovani, se sono capaci di intercettare e di rispondere alla domanda di senso che li abita e se, allo stesso tempo, ravvivano la nostra opzione vocazionale. Quale è la sola cosa di cui c’è bisogno per fare in modo che questi auspici non rimangano tali? A queste parole fa eco una semplice domanda del teologo Adrien Candiard: È ora di comprendere che non tutto può andare avanti come è sempre stato. Dobbiamo accettare che del nostro mondo cristiano tra qualche decennio resterà poco in piedi e la domanda è se siamo disposti ad accettare ciò. Cosa merita di restare in piedi?1
Ultimamente torno spesso all’episodio della donna che da dodici anni soffre di emorragia. Il suo desiderio di essere guarita l’ha portata, speranzosa, a toccare, furtivamente e anonimamente, Gesù. Nella versione del Vangelo di Matteo l’emorroissa dice tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata» (Mt 9,21). In realtà non basterà quel tocco. Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu salvata. (Mt 9,22). È preziosissimo quest’ultimo inciso. Gesù non vuole che lei ottenga la guarigione in modo anonimo. Cerca il suo volto, cerca la persona, cerca l’incontro.2 Gesù si volta per incrociare lo sguardo della donna. Gesù si guarda attorno per vedere colei che aveva fatto questo (Mc 5,32). Da quell’istante, ovvero dal momento in cui i due volti si incontrano, la donna fu salvata. Non prima. Non basta toccare Gesù così come non basta stringere la mano ad una persona per dire che quella conoscenza è risolutiva. È nel momento in cui avviene l’incontro che la salvezza trova dimora e mette radici. Ripensando a Maria di Betania, la parte migliore che non le sarà tolta è l’incontro con Gesù. Anche Marta stava con Gesù prendendosi cura di Lui attraverso l’accoglienza, ma affannata e agitata si perdeva l’incontro con Lui. Servendolo lo toccava ma non lo incontrava. È l’incontro che fa la differenza.
Pensando alla nostra azione pastorale, la parte migliore è assicurare l’incontro con i giovani, il rapporto personale, il momento in cui il loro volto si sente conosciuto e quindi amato da un volto interessato personalmente al loro destino. Noi facciamo toccare ai giovani molte esperienze e facciamo certamente toccare loro anche Gesù, ma la parte migliore, la sola cosa di cui c’è bisogno è quella che fa in modo che avvenga un vero incontro con noi e con Gesù. È questo che accende il cuore, che stuzzica la capacità di sognare, che fa venire il desiderio di avere il Vangelo cucito addosso, che appassiona al carisma e alla missione salesiana al punto da dire: Vale proprio la pena dare la vita come don Bosco. A conferma di ciò, così scrive Tomáš Halík nel testo “Pomeriggio del cristianesimo”: Sono fermamente convinto che un servizio personale di accompagnamento spirituale sarà una funzione cardine e fra le più richieste della Chiesa nel futuro pomeriggio della storia cristiana.3 E afferma che la Chiesa ha bisogno di oasi di spiritualità4 affinché questo avvenga. A onor del vero, lo sappiamo anche noi dato che il soprannaturale era di casa a Valdocco.
Lo stralcio di una recente mail che ho ricevuto da don Gioachino Barolo sul tema vocazionale, ci aiuta a cogliere come vivere salesianamente l’incontro e l’accompagnamento. Se io guardo alla mia vita salesiana, quando ero contento, gioioso, stanco e affaticato ma sempre, in ogni situazione, in mezzo ai ragazzi e ai giovani, tutto era contagioso, anche la voglia di imitarmi. Questa è la vita salesiana: trascinatori semplici ma contenti. Ho riletto il “Sogno del pergolato di rose” di Don Bosco: una meraviglia! Questa è la vocazione salesiana. Dobbiamo essere contenti, vivere sempre in grazia di Dio, con una gioia che parte dal cuore e arriva all’esterno. Si dice: “Viso allegro e cuore in mano, ecco fatto il salesiano”. Don Bosco prometteva ai suoi salesiani: “Pane, lavoro e paradiso”. Cosa vogliamo di più dalla vita? Questa è la vocazione da proporre accompagnandola con la testimonianza e la fedeltà a Don Bosco. Lui ha detto che la vita salesiana è una strada sicura per farsi santi, ed è proposta a tutti. Sta a noi prima accettarla in pieno e poi non avere paura di proporla ai giovani che incontriamo perché anche loro possano percorrerla ed essere contenti e santi nella vita e nel futuro.
La parte migliore è l’incontro personale, quell’istante che ti fa sentire conosciuto, amato, unico, accettato nonostante le tue fragilità. Come Gesù impariamo a volgere lo sguardo per incontrare coloro che toccano il mantello dell’esperienza salesiana. Se tutto questo è vero nella missione, lo è altrettanto vero all’interno della vita comunitaria. Tocchiamo il mantello del fratello sperando che capiti qualcosa, ma è ancora troppo poco se l’incontro non avviene. La fraternità ha bisogno di forme relazionali che generano e custodiscono la vita, di cuori accessibili così come di sguardi che aiutano a stare nella fatica e non necessariamente ad alleviarla. Molte volte, per motivare le fatiche, “spieghiamo” tutto, cioè togliamo le pieghe, dimenticando che l’esperienza biblica è anche stare nelle pieghe, è accettare di essere “piegati” dalla vita. La fraternità è vera quando sostiene in questi momenti. Diversamente è l’inferno, il luogo del deserto degli affetti.
Un’ultima cosa. Nel recente viaggio in Ungheria, parlando a quanti operano a livello ecclesiale, Papa Francesco ha detto: il primo lavoro pastorale è la testimonianza della comunione, perché Dio è comunione ed è presente dove c’è carità fraterna5, dove accade l’incontro. Similmente Luigino Bruni ha scritto: Nelle organizzazioni a movente ideale (come la nostra), il primo e non di rado unico capitale sono le persone e i loro asset relazionali.6 Il Signore ci aiuti a scegliere sempre la parte migliore.
don Igino Biffi
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1 Matteo Matzuzzi, La fine del nostro mondo cristiano. Parla il teologo Adrien Candiard, Il Foglio 27 maggio 2023. Vedi anche Adrien Candiard, La speranza non è ottimismo. Note di fiducia per cristiani disorientati, EMI 2021.
2 Cf. Tomáš Halík, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare, Vita e Pensiero, Milano 2022, p.247.3 Tomáš Halík, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare, Vita e Pensiero, Milano 2022, p.243.
4 Tomáš Halík, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare, Vita e Pensiero, Milano 2022, p.240.
5 Papa Francesco, Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali, Budapest 28 aprile 2023. 6 Luigino Bruni, I colori del cigno. Quando le persone sono più grandi delle loro organizzazioni, Città Nuova, Roma 2020, p.8.